Pubblichiamo un contributo da Il Picchetto (www.facebook.com/pg/Ilpicchetto)
Alcune riflessioni sulle mobilitazioni operaie in corso
Questi spunti sono il prodotto dell’esperienza diretta nelle aziende in cui lavoriamo e dell’inchiesta che stiamo portando avanti come gruppo attraverso i nostri contatti. Per quanto parziali, pensiamo possano dare modo di capire e orientarsi all’interno della mobilitazione generale in corso.
La settimana appena trascorsa ha segnato un passaggio importante che non si vedeva da tempo. Un po’ ovunque operai e lavoratrici hanno preso in mano la situazione e con malattie in massa, scioperi, blocchi, rallentamenti della produzione hanno costretto, da un lato, Confindustria e i suoi soci a fare sanificazioni delle aziende, far saltar fuori DPI, chiudere e mettere in parte o tutti in cassa integrazione; dall’altro lato hanno costretto i sindacati confederali ad indire scioperi e coprire gli stessi sino al 25 marzo.
Questo risultato è il prodotto di una situazione che all’interno di molte aziende covava da qualche settimana. Mentre fuori dai cancelli della fabbrica quasi tutto si fermava a causa del Covid 19, all’interno di molte aziende tutto rimaneva inalterato: stessi ritmi, stessa promiscuità, bagni sporchi come sempre, nessun disinfettante, nessuna comunicazione. Come se lo “stato d’emergenza” non varcasse quel confine, oltre al quale, la “normalità” dello sfruttamento fosse garantita.
Cronistoria
Quando lo “stato d’emergenza” è entrato nelle fabbriche, non ha modificato i ritmi o la produzione, ma ha imposto il divieto di assemblee, di sciopero, ha inasprito la regolamentazione delle pause, che sono state diminuite, e ha portato al divieto di formare capannelli alle macchinette. Il Covid 19 colpiva la socialità e l’agibilità degli operai, ma non colpiva la produzione. Colpiva tutta la società ma non la fabbrica. Fuori dovevi abituarti al “distanziamento sociale”, dentro solo quando non riguardava il lavoro vivo, infatti, sulle linee continuavi a lavorare ammassato come sempre.
Tutti gli operai hanno seguito le dirette notturne di Conte come fossero le finali dei mondiali e tutti si aspettavano ad ogni decreto ministeriale la chiusura delle fabbriche. Ogni volta il cerchio si stringeva: prima la sospensione delle lezioni, poi le zone rosse con le 14 province, poi tutta l’Italia zona rossa, poi tutto (o quasi) chiuso tranne alimentari, farmacie, edicole, tabacchini e determinati negozi come i rivenditori di elettrodomestici.
Ogni uscita dell’”avvocato del popolo” sembrava dovesse annunciare l’unica verità che nelle fabbriche gli operai aspettavano: il blocco delle produzioni non essenziali. Ma questa non veniva. Ad ogni uscita disattesa di Conte nelle chat di Whatsapp e il giorno dopo in fabbrica si discuteva di quanto fosse allucinante questa situazione, di quanto l’azienda se ne sbattesse e di quanto gli operai, per l’ennesima volta, dovessero fare la parte delle bestie da macello.
Come se non bastasse Confindustria dice chiaramente: “le aziende non devono chiudere!”. Con queste parole Boccia apre una sfida che non può non essere raccolta. Da un lato noi, che vorremmo le aziende chiuse, a sudare sulle macchine e sulle linee, mentre il resto d’Italia è chiusa per pandemia, e dall’altra lor signori, che dai loro uffici dorati ci dicono che dobbiamo lavorare. Nella notte di mercoledì Conte ratifica nero su bianco le direttive dei confindustriali.
Già da martedì gli operai di Pomigliano avevano battuto un colpo con uno sciopero selvaggio e i lavoratori dei magazzini della logistica stavano dando un esempio formidabile come sempre.
Giovedì tra i lavoratori l’amaro in bocca si trasforma in rabbia e in rifiuto di mediazioni. Prima si prova con le buone, si va dai vari RSU e RLS a cercare di capire cosa vogliono fare, ma le direttive dei loro funzionari sono ambigue, bisogna aspettare che forse il governo chiuderà le aziende e forse metterà sul piatto soldi per la cassa integrazione. Ma di aspettare non se ne può più. Nelle aziende con delegati pronti e svegli si chiama immediatamente lo sciopero e il blocco, nelle altre invece si assiste a episodi di varia entità: colleghi che prendono e vanno a casa senza dir nulla, si organizzano malattie di massa, si rallenta la produzione, si formano capannelli nei quali si discute per capire come muoversi con o senza il sindacato, poco importa, bisogna chiudere la fabbrica punto.
La situazione sfugge così tanto di mano che i sindacati confederali danno il via libera all’agitazione e alla mobilitazione. Su Facebook e nei gruppi Whatsapp è un continuo postare o condividere notizie di fabbriche in sciopero, articoli di aziende che si fermano e di blocchi. Questo provoca un effetto a valanga che coinvolge anche le realtà di medie e piccole dimensioni.
Il venerdì per Confindustria è un’ecatombe, la sua parola d’ordine “tutto aperto” si è scontrata con quella operaia “tutto chiuso” e ad averla spuntata, almeno parzialmente, siamo noi. Nel weekend la Fiom fa la parte del sindacato di lotta pubblicando liste di fabbriche chiuse. Poco importa se fino a pochi giorni prima dava direttive opposte.
Il governo, misurati i rapporti di forza messi in campo dalle proteste, coinvolge i confederali nella legittimazione del diktat di Confindustria: approva un decreto di 13 punti tra governo e parti sociali nel quale, da un lato, si certifica il continuo della produzione e, dall’altro lato, inserisce una serie di misure da adottare per garantire la salute. Troppo poco rispetto a quello per il quale stiamo lottando. Anzi, il decreto approvato, con l’obiettivo di buttare acqua sul fuoco delle mobilitazioni, introduce nuove libertà per il padronato, come l’utilizzo unilaterale del telelavoro o l’accesso sempre unilaterale alla cassa integrazione, derogando quindi al confronto con la Rsu. Il protocollo firmato è da rispedire al mittente.
Bilancio
Per quanto venga fatto un decreto che autorizza le aziende a tener aperto, il dato materiale è che gli operai hanno chiuso le fabbriche o le stanno chiudendo. Per Confindustria il punto era capitalizzare un rapporto di forza nel quale si diceva che dentro le aziende comandano loro e fanno ciò che vogliono e quando vogliono. Questa operazione è fallita. La mobilitazione operaia ha costretto tantissimi padroni a chiudere in fretta e furia, a far sì che lo “stato d’emergenza” varcasse il confine della fabbrica. In questi giorni sono in corso sanificazioni e richieste continue di cassa integrazione di tutti i lavoratori o in alcuni casi di solo una parte. Le produzioni sono al minimo. Tante aziende di fronte al protocollo appena approvato, che comunque mette dei paletti ad una presunta “autoregolamentazione” sbandierata da Boccia, preferiscono chiudere piuttosto che avventurarsi nell’impresa di rispettarlo.
Abbiamo vinto? No. Troppe aziende sono ancora aperte e governo e padroni devono garantire che non si perda un euro di salario e un posto di lavoro a causa dell’emergenza.
Abbiamo perso? No. Perchè dal punto di vista dei rapporti di forza generali la classe operaia ha battuto un colpo forte che ha costretto i padroni a una vistosa marcia indietro e i suoi lacchè confederali a rincorrerli per non perdere legittimità e autorevolezza.
Rilancio
La strada percorsa dal gatto selvaggio nelle fabbriche non è ascrivibile solo ad un discorso di salute e sicurezza nei posti di lavoro. Sicuramente la paura di contrarre il Covid 19 ha generato una certa emergenzialità della situazione, per cui in qualche misura valeva tutto, nessuno poteva dirsi contrario a fermare la produzione.
Non parliamo solo di salute e sicurezza però: le parole di Confindustria hanno gettato benzina su una prateria pronta a prendere fuoco e il ruolo del governo Conte, passato da “avvocato del popolo” ad “avvocato dei padroni” hanno innescato la situazione. Tra gli operai si è reso chiaro come lo stato difenda gli interessi padronali, i loro profitti, contro le nostre vite. I sindacati erano così occupati a difendere il governo dagli assalti di Salvini, a prendere parte a questo coretto di responsabili, di “siamo tutti sulla stessa barca”, di “l’Italia chiamò”, che si sono trovati a rincorrere un gatto selvaggio, che correva agile tra linee e officine smontando e rovinando quel triste siparietto.
La partita è più aperta che mai. Nel breve termine l’obiettivo di massima è chiudere tutto, rispedendo al mittente il protocollo firmato dov’è possibile, proseguendo lo stato di agitazione. Bisogna sottolineare che quanto firmato dai confederali punta a legare le mani a Rsu e Rls obbligandoli di fatto a prender parte a dei comitati, con Rspp e capetti vari, finalizzati a concordare le condizioni per la ripresa della produzione. La partita si gioca quindi sui rapporti di forza concreti fabbrica per fabbrica. L’obiettivo secondo noi è in ogni caso quello di vendere cara la pelle o puntando a rendere così stringente l’applicazione del protocollo da risultare onerosa e impossibile da praticare per i padroni o quantomeno premere con ogni mezzo per un’applicazione che metta come principale la salute sui profitti. Fermo restando che ad oggi il ricorso alla malattia, organizzata collettivamente, risulta essere lo strumento più in uso per boicottare la produzione, dobbiamo puntare a rilanciare lo sciopero nelle sue varie forme e costruire momenti di confronto per rafforzare la coesione e il dibattito interno.
Inoltre, mobilitiamoci affinché non si perda un euro e un posto di lavoro a causa dell’emergenza. Non dobbiamo pagare noi la crisi con le nostre ferie, dobbiamo pretendere che i padroni mettano di tasca propria quello che lo stato non paga, come la parte mancante di salario nel caso della cassa integrazione.
Inoltre, questa battaglia va vista in prospettiva. Il Covid 19 ha messo a nudo e ha accelerato una crisi profonda già in essere all’interno del sistema capitalista. Prima o poi lo “stato d’emergenza” finirà, soprattutto fuori dai cancelli, riapriranno le scuole, i bar, i negozi, ecc. Ma dentro i cancelli e non solo, chi pagherà e come la cassa integrazione? Quali saranno le politiche di lacrime e sangue che cercheranno di farci ingoiare per il salato conto di deficit che stanno facendo? Riusciranno a convincerci che bisogna fare i sacrifici per responsabilità verso l’Italia? Chi pagherà la crisi?
Queste sono le domande alle quali da ora dobbiamo iniziare a rispondere cercando di curare e far crescere quel gatto selvaggio che sta girando nelle fabbriche, aiutandolo a prendere coscienza della propria forza e affilando gli artigli per questa e le prossime battaglie.